Gran Paradiso m 4.061 dal rif.Chabod al Vittorio Emanuele II - 8-9 Luglio 2012
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Questa salita, che ha segnato il mio ritorno sui quattromila dopo una pausa di tre anni, è stata organizzata nell'anno del mio mezzo secolo di esistenza. Finalmente sul Gran Paradiso, dopo averlo visto per quarant’anni!
Sono stato spronato diverse volte a prepararmi fisicamente, mi è stato ricordato spesso che andare su un 4.000 non era uno scherzo come sforzo fisico e ora il momento giusto sembra arrivato. Il tempo di lunedì, ultimo giorno di queste mie ferie, si annuncia perfetto e così domenica pomeriggio si sale al rifugio Chabod dove abbiamo incontrato una cortesia davvero unica.
La mattina, poco prima delle 4 partiamo dal rifugio Chabod. Prendiamo il sentierino che scavalca il ruscello e sale sulla morena. Poco prima che la morena muoia contro il ghiacciaio, degli ometti e la traccia ci guidano a destra verso il centro del vallone occupato dal ghiacciaio di Lavacieu. C’è ancora buio quindi talvolta cerchiamo gli ometti puntando in giro la frontale. Raggiunto il ghiacciaio indossiamo ramponi e ghette mentre comincia a schiarire. Davanti a noi abbiamo la parete nordovest del Gran Paradiso, sulla sua destra il ghiacciaio che dobbiamo salire verso la “schiena d’asino” dove incontreremo le cordate che salgono dal rifugio Vittorio Emanuele. Io punto ad una evidente traccia che risale il pendio di neve verso destra. Una riflessione in più mi avrebbe suggerito che non è quella che avevamo visto dal rifugio che invece si teneva al centro.
Nel primo tratto il ghiacciaio è pianeggiante e mi sembra innocuo ma mi fanno presente che è sempre un ghiacciaio e non un sentiero di terra battuta. Cerchiamo le tracce e non appena il pendio inizia a salire decidiamo di legarci in cordata.
Dopo la prima rampa ci accorgiamo che la traccia principale è un’altra e si tiene al centro del ghiacciaio, dove stanno arrivando i primi partiti dal rifugio (colazione alle 4 … noi eravamo già per strada!).
Decidiamo di proseguire lungo questa “variante” tenendo conto che siamo comunque su delle tracce per cui qualcuno da qui è passato. Siamo fiduciosi che ci porterà fuori dalla zona crepacciata tenendosi sulla destra. Così avviene e facendo un po’ di attenzione aggirando o superando qualche crepaccio sbuchiamo su un pianoro di neve dove una evidente pista riporta su quella centrale. La seguiamo e ricominciamo a salire. Fin qui ho pensato “Se oggi salgo sul Gran Paradiso è un peccato che non ho le ferie per tentare subito il Monte Bianco”.
Faccio presto a cambiare idea … alcune pendenze del ghiacciaio di Lavacieu mi costringono ad ansimare, mi fanno abbandonare ogni velleità sul Monte Bianco fino a farmi dire “domenica prossima vado a pranzo dai parenti … ”.
Però lo spettacolo sulla “schiena d’asino” ricompensa dalla fatica. Il tempo è perfetto e si vede tutto l’arco alpino occidentale dal Monviso al Monte Bianco. Stimo che siamo circa alla stessa altezza del Ciarforon e ciò mi incoraggia: “Mancano “solo” 400 metri di dislivello, quindi ce la devo fare”. Ma appena dopo c’è un pendio da salire che porta sul traverso ascendente finale. Spero che non mi vengano crampi dolorosi, cosa che talvolta mi succede durante uno sforzo prolungato, perché la vetta è ancora lontana ma salgo indenne. La quota si fa sentire e questi 400 metri saranno davvero molto faticosi.
Fatto il traverso, dobbiamo ora salire sulle rocce accatastate che costituiscono la cima. C’è uno stretto passaggio tra un blocco e l’altro ma ci sono anche le cordate che scendono, salgono, si incrociano e si accalcano rendendo la progressione spiacevole. Da una “piazzola” getto un veloce sguardo sul ghiacciaio della Tribolazione sotto di noi (che oggi non è per nulla “tribolato” ma coperto da uno splendido manto bianco) e sulla catena delle Alpi Pennine ma purtroppo non fotografo avendo le mani guantate e impegnate una a tenere la piccozza e l’altra per appoggiarmi alla roccia. Non ho ancora accennato alle condizioni climatiche: perfette per la salita … ma freddo … sono convinto che siamo sotto lo zero e un venticello aumenta la sensazione di gelo.
Sono quasi le nove quando arriviamo su una crestina orizzontale che termina con lo spuntone con la “Madonnina”. Neanche fosse La Gioconda di Leonardo c’è una ressa di persone che si accalcano verso la Madonnina e assieme ad altre che scendono. A darmi fastidio non è tanto la cresta ma la calca e dietro di noi continua ad arrivare gente.
Mi fermo seduto su un roccione tra due spuntoni che caratterizzano la cima, quello con la "Madonnina" e l'altro che secondo me è più alto. Qualcuno usa il mio ginocchio come appoggio e dice “Grazie”. C’è una babele di lingue, almeno cinque. Purtroppo la mia posizione è svantaggiosa per fotografare. Cominciamo a scendere passando di fianco ai vari spuntoni della cresta che avevo visto tante volte in fotografia. Un altro veloce sguardo sul ghiacciaio sottostante e sulle montagne circostanti e vedo per un attimo vette aguzze che possono essere la Torre del Gran San Pietro o la Roccia Viva.
Usciti dalla zona rocciosa riorganizziamo la cordata e scendiamo alla schiena d’asino. Su un pianoro alcune cordate si stanno riposando, alcune altre stanno salendo con fatica. Ormai abbiamo deciso: scenderemo dal rifugio Vittorio Emanuele.
Lasciamo a destra il vallone che conduce allo Chabod e poi la “schiena d’asino” e percorriamo larghi pendii innevati a pendenza regolare che però mi sembrano piuttosto monotoni rispetto alla via di salita dominata dalla parete nordovest.
Scendendo comincio a sognare la fine della neve, comunque ottima, ora sono stanco. A circa 2900 metri, alle 11.15, facciamo una sosta dove poco alla volta mi ritorna la voglia di mangiare (fino a qui abbiamo mangiato poco o nulla) e di … parlare e inizio a raccontare tutte le cime che vediamo
Scendiamo lungo un canale nevoso di fianco alla morena, poi proseguiamo sul sentiero per il rifugio Vittorio Emanuele. Ora compare il panorama classico della testata della Valsavaranche. L’ultima discesa è la più noiosa: questi tornanti voluti dal Re per viaggiare comodo non finiscono mai e oltretutto sono sempre al sole.
Al parcheggio di Pont rimane da scendere a recuperare l’auto: “Saranno 15-20 minuti” dico io. L'idea di cercare un passaggio viene accantonata dall'arrivo della corriera.
Si è trattato di una ascensione in linea con le mie possibilità attuali, facile ma non banale né breve, condita da una piccola “variante”, valorizzata da una via di discesa diversa da quella di salita, in un ambiente fortunatamente integro, su una montagna che per me è importante.
Sono stato spronato diverse volte a prepararmi fisicamente, mi è stato ricordato spesso che andare su un 4.000 non era uno scherzo come sforzo fisico e ora il momento giusto sembra arrivato. Il tempo di lunedì, ultimo giorno di queste mie ferie, si annuncia perfetto e così domenica pomeriggio si sale al rifugio Chabod dove abbiamo incontrato una cortesia davvero unica.
La mattina, poco prima delle 4 partiamo dal rifugio Chabod. Prendiamo il sentierino che scavalca il ruscello e sale sulla morena. Poco prima che la morena muoia contro il ghiacciaio, degli ometti e la traccia ci guidano a destra verso il centro del vallone occupato dal ghiacciaio di Lavacieu. C’è ancora buio quindi talvolta cerchiamo gli ometti puntando in giro la frontale. Raggiunto il ghiacciaio indossiamo ramponi e ghette mentre comincia a schiarire. Davanti a noi abbiamo la parete nordovest del Gran Paradiso, sulla sua destra il ghiacciaio che dobbiamo salire verso la “schiena d’asino” dove incontreremo le cordate che salgono dal rifugio Vittorio Emanuele. Io punto ad una evidente traccia che risale il pendio di neve verso destra. Una riflessione in più mi avrebbe suggerito che non è quella che avevamo visto dal rifugio che invece si teneva al centro.
Nel primo tratto il ghiacciaio è pianeggiante e mi sembra innocuo ma mi fanno presente che è sempre un ghiacciaio e non un sentiero di terra battuta. Cerchiamo le tracce e non appena il pendio inizia a salire decidiamo di legarci in cordata.
Dopo la prima rampa ci accorgiamo che la traccia principale è un’altra e si tiene al centro del ghiacciaio, dove stanno arrivando i primi partiti dal rifugio (colazione alle 4 … noi eravamo già per strada!).
Decidiamo di proseguire lungo questa “variante” tenendo conto che siamo comunque su delle tracce per cui qualcuno da qui è passato. Siamo fiduciosi che ci porterà fuori dalla zona crepacciata tenendosi sulla destra. Così avviene e facendo un po’ di attenzione aggirando o superando qualche crepaccio sbuchiamo su un pianoro di neve dove una evidente pista riporta su quella centrale. La seguiamo e ricominciamo a salire. Fin qui ho pensato “Se oggi salgo sul Gran Paradiso è un peccato che non ho le ferie per tentare subito il Monte Bianco”.
Faccio presto a cambiare idea … alcune pendenze del ghiacciaio di Lavacieu mi costringono ad ansimare, mi fanno abbandonare ogni velleità sul Monte Bianco fino a farmi dire “domenica prossima vado a pranzo dai parenti … ”.
Però lo spettacolo sulla “schiena d’asino” ricompensa dalla fatica. Il tempo è perfetto e si vede tutto l’arco alpino occidentale dal Monviso al Monte Bianco. Stimo che siamo circa alla stessa altezza del Ciarforon e ciò mi incoraggia: “Mancano “solo” 400 metri di dislivello, quindi ce la devo fare”. Ma appena dopo c’è un pendio da salire che porta sul traverso ascendente finale. Spero che non mi vengano crampi dolorosi, cosa che talvolta mi succede durante uno sforzo prolungato, perché la vetta è ancora lontana ma salgo indenne. La quota si fa sentire e questi 400 metri saranno davvero molto faticosi.
Fatto il traverso, dobbiamo ora salire sulle rocce accatastate che costituiscono la cima. C’è uno stretto passaggio tra un blocco e l’altro ma ci sono anche le cordate che scendono, salgono, si incrociano e si accalcano rendendo la progressione spiacevole. Da una “piazzola” getto un veloce sguardo sul ghiacciaio della Tribolazione sotto di noi (che oggi non è per nulla “tribolato” ma coperto da uno splendido manto bianco) e sulla catena delle Alpi Pennine ma purtroppo non fotografo avendo le mani guantate e impegnate una a tenere la piccozza e l’altra per appoggiarmi alla roccia. Non ho ancora accennato alle condizioni climatiche: perfette per la salita … ma freddo … sono convinto che siamo sotto lo zero e un venticello aumenta la sensazione di gelo.
Sono quasi le nove quando arriviamo su una crestina orizzontale che termina con lo spuntone con la “Madonnina”. Neanche fosse La Gioconda di Leonardo c’è una ressa di persone che si accalcano verso la Madonnina e assieme ad altre che scendono. A darmi fastidio non è tanto la cresta ma la calca e dietro di noi continua ad arrivare gente.
Mi fermo seduto su un roccione tra due spuntoni che caratterizzano la cima, quello con la "Madonnina" e l'altro che secondo me è più alto. Qualcuno usa il mio ginocchio come appoggio e dice “Grazie”. C’è una babele di lingue, almeno cinque. Purtroppo la mia posizione è svantaggiosa per fotografare. Cominciamo a scendere passando di fianco ai vari spuntoni della cresta che avevo visto tante volte in fotografia. Un altro veloce sguardo sul ghiacciaio sottostante e sulle montagne circostanti e vedo per un attimo vette aguzze che possono essere la Torre del Gran San Pietro o la Roccia Viva.
Usciti dalla zona rocciosa riorganizziamo la cordata e scendiamo alla schiena d’asino. Su un pianoro alcune cordate si stanno riposando, alcune altre stanno salendo con fatica. Ormai abbiamo deciso: scenderemo dal rifugio Vittorio Emanuele.
Lasciamo a destra il vallone che conduce allo Chabod e poi la “schiena d’asino” e percorriamo larghi pendii innevati a pendenza regolare che però mi sembrano piuttosto monotoni rispetto alla via di salita dominata dalla parete nordovest.
Scendendo comincio a sognare la fine della neve, comunque ottima, ora sono stanco. A circa 2900 metri, alle 11.15, facciamo una sosta dove poco alla volta mi ritorna la voglia di mangiare (fino a qui abbiamo mangiato poco o nulla) e di … parlare e inizio a raccontare tutte le cime che vediamo
Scendiamo lungo un canale nevoso di fianco alla morena, poi proseguiamo sul sentiero per il rifugio Vittorio Emanuele. Ora compare il panorama classico della testata della Valsavaranche. L’ultima discesa è la più noiosa: questi tornanti voluti dal Re per viaggiare comodo non finiscono mai e oltretutto sono sempre al sole.
Al parcheggio di Pont rimane da scendere a recuperare l’auto: “Saranno 15-20 minuti” dico io. L'idea di cercare un passaggio viene accantonata dall'arrivo della corriera.
Si è trattato di una ascensione in linea con le mie possibilità attuali, facile ma non banale né breve, condita da una piccola “variante”, valorizzata da una via di discesa diversa da quella di salita, in un ambiente fortunatamente integro, su una montagna che per me è importante.
Tourengänger:
andrea62

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